Una mela al giorno…

Sgombriamo il campo dai luoghi comuni, e impariamo (o reimpariamo) a fare la spesa, perché molto del nostro benessere parte proprio da lì: dalle scelte che facciamo su cosa acquistare e, non da meno, dove acquistarlo.

A cura di Lisa Sequi, responsabile dell’ambulatorio nutrizionale a Voglia di Vivere, e in collaborazione con ISPRO e la dottoranda Teresa Facchini, inizieremo a proporre una serie di… chiamiamole riflessioni alimentari, proprio allo scopo di fornire le indicazioni per una spesa alimentare che sia quanto più consapevole, responsabile, ovvero adeguata a supportare il nostro star bene.

Perciò, di seguito vi proponiamo, un menù di articoli saporiti e salutari: e non pensiate che la cosa non finisca qui, perché… abbiamo messo a bollire in pentola altre sorprese gustosamente interessanti!

Se avete Voglia di… mangiarsano, eccovi serviti!

 

 

 

 

Il lato amaro della dolcezza

Articolo realizzato a cura dall’ambulatorio nutrizionale di Voglia di Vivere

Gli zuccheri semplici sono presenti da sempre nella dieta dell’uomo: dagli zuccheri della frutta in tempi primitivi ai dolci sfiziosi che venivano presentati sulle tavole reali. Ma cos’è che li rende così gradevoli e amati da tutti? Ogni individuo -chi più chi meno- possiede un’innata propensione per il dolce. Questa risale in parte a stati emotivi derivanti dal sapore del latte materno, ma soprattutto da un’istintiva preferenza dei neonati nei confronti dei sapori zuccherini e quindi energetici, fondamentali per la crescita e la sopravvivenza. I fabbisogni dei neonati sono però diversi da quelli degli adulti: infatti, secondo le Linee guida per una sana alimentazione del 2018, il consumo di zuccheri semplici non dovrebbe superare il 15% del fabbisogno energetico giornaliero. Per mantenersi al di sotto di questa quota occorre seguire una dieta equilibrata limitando dolci, bevande edulcorate e snack ad alto contenuto di zuccheri.
Il sapore dolce degli alimenti è dato dall’utilizzo di dolcificanti che possono essere naturali o artificiali.

Gli zuccheri naturali sono quelli che si ritrovano in natura, come il glucosio, il fruttosio nella frutta e il galattosio nel latte, ma anche lo xilitolo e il sorbitolo. Queste sostanze hanno un apporto calorico elevato e incidono sull’innalzamento della glicemia e sull’accumulo di trigliceridi, fatta eccezione per la Stevia, una pianta di origini sudamericane dalla quale si ottiene un dolcificante acalorico. Un’altra valida opzione consiste nell’utilizzo di miele: nonostante sia costituito per lo più da fruttosio e saccarosio, presenta difatti un indice glicemico leggermente inferiore al glucosio, oltre ad essere una fonte di vitamine e minerali.
L’aspartame, la saccarina e il ciclammato sono invece esempi di edulcoranti sintetici. I dolcificanti artificiali sono stati pensati principalmente per sopperire alle mancanze dei dolcificanti naturali: si tratta infatti di sostanze con elevato potere dolcificante, il che li rende efficaci anche a piccole dosi riducendo così l’apporto calorico (quasi pari a zero) e l’effetto sulla glicemia. L’utilizzo di queste sostanze è dunque consigliato a persone diabetiche o a chiunque debba tenere sotto controllo i livelli di glucosio nel sangue. Anche questa classe di dolcificanti ha però delle controindicazioni: studi scientifici hanno infatti dimostrato la tossicità e la cancerogenicità di alcune di queste sostanze, motivo per cui il loro utilizzo è consigliato sempre in dosi minime.
Come abbiamo detto, entrambe le classi di dolcificanti hanno pro e contro: i dolcificanti artificiali sono utili in caso di diabete ma vanno comunque consumati a piccole dosi perché potrebbero comportare un rischio diretto per la salute. D’altra parte, anche il consumo di dolcificanti naturali, se non moderato, può portare a elevati valori di glicemia e aumento di peso, nonostante siano sostanze prive degli effetti collaterali a lungo termine tipici degli edulcoranti artificiali.
In conclusione, si può dire che quando si parla di dolci, non vale la regola melius est abundare quam deficere!

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Dadi: gettiamoli!

Articolo realizzato a cura dall’ambulatorio nutrizionale di Voglia di Vivere

Il dado da cucina, o dado da brodo, è un concentrato di carne e di verdure largamente utilizzato in cucina per dare sapore ai piatti. Questo prodotto assai conosciuto è stato lanciato sul mercato a partire dal dopoguerra con l’arrivo di una nuova cultura domestica. L’idea era quella di un prodotto in grado di “aiutare” in cucina alla stregua di un elettrodomestico, accorciando i tempi di preparazione dei piatti e garantendo così maggior tempo libero al consumatore. Il prodotto era stato pensato per un pubblico femminile, in quanto regnava ancora l’immagine de “l’angelo del focolare” ma allo stesso tempo voleva essere un’innovazione in grado di rompere le catene che legavano la donna in cucina, permettendole appunto maggior tempo da impiegare altrove.
Nonostante i suoi intenti “nobili”, il dado da cucina classico non può essere considerato un prodotto salutare. La lista degli ingredienti presenta ai primi posti il sale e il glutammato monosodico (o altri esaltatori di sapidità). Sono presenti inoltre grassi idrogenati, aromi, concentrati di verdure ed estratti di carne. Questi ultimi possono contenere anche parti dell’animale non comunemente consumate, come ad esempio gli zoccoli.
In seguito alle diverse critiche mosse al dado proprio per la sua composizione, sono state messe sul mercato diverse varianti con una lista di ingredienti leggermente migliorata. Che si tratti di prodotti a ridotto contenuto di sale, senza glutammato o senza grassi idrogenati, resta comunque il fatto che questo prodotto nasce come esaltatore di sapore, quindi per definizione non potrà mai essere salutare ed è pertanto sempre consigliato un consumo moderato.
Il fatto che il dado, grazie al sale e agli esaltatori di sapidità, permetta di ottenere piatti dal sapore più marcato potrebbe indurci a pensare che non utilizzandolo le nostre pietanze possano risultare sciape ed insapori. In realtà diminuendo (o perlomeno limitando) questi due ingredienti è possibile riscoprire un mondo di sapori che, in presenza di sale o di glutammato, risulterebbero troppo tenui per poter essere percepiti.
Se invece non si riesce a fare a meno dei sapori forti, una buona alternativa potrebbe essere rappresentata dall’utilizzo di erbe aromatiche e altre spezie che oltre a conferire sapore alla vivanda non comportano rischi per la salute di chi la consuma, ma, al contrario, ad alcune spezie sono state riconosciute proprietà benefiche.
Infine, è sempre bene ricordare che oltre al consumo di alimenti sani, anche le modalità e il tempo impiegato per prepararli hanno una loro influenza sulla costruzione di un sano rapporto con il cibo e l’alimentazione. Prendersi del tempo per preparare un piatto sano e appetitoso, oltre a gustarlo, porta a grande gratificazione da parte dei commensali e soprattutto ad una grande soddisfazione personale.

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Senza rompere le uova

Articolo realizzato a cura dall’ambulatorio nutrizionale di Voglia di Vivere

Le uova sono un alimento che troviamo quotidianamente sulle nostre tavole, che siano all’interno di prodotti più elaborati o mangiate tali e quali. Contengono qualche vitamina e sali minerali, sono fonte di lipidi ma soprattutto permettono l’apporto di proteine ad alto valore biologico.
Esistono diverse tipologie di uova sul mercato, quelle che abitualmente compriamo nei supermercati sono uova di categoria A e cioè sono destinate al consumo diretto, mentre quelle di categoria B sono utilizzate per preparazioni industriali e hanno una qualità leggermente più scadente. In base alla taglia, possono inoltre essere classificate come piccole (S), medie (M), grandi (L) o molto grandi (XL).
La normativa di riferimento per l’etichettatura e le informazioni in essa riportate è la stessa per uova, carne e pesce e corrisponde al Regolamento CE 2295/2003.
Secondo questo regolamento, su ogni uovo, così come sulla confezione, è obbligatoria l’apposizione di un codice alfanumerico, utile per la tracciabilità del lotto. Analizziamolo insieme: il primo numero corrisponde alla tipologia di allevamento impiegata per l’ottenimento delle uova:
– 0 – le galline vivono all’aperto per almeno un terzo della loro vita e sono alimentate con mangime biologico.

-1 – le galline hanno accesso quotidianamente all’esterno per razzolare, sono allevate con una densità superiore alla categoria 0 e non viene utilizzato mangime biologico.
– 2 – le galline vivono libere a terra, sono allevate in capannoni chiusi senza accesso all’esterno. La densità di allevamento non varia da categoria 1 alla categoria 2.

– 3 – le galline sono allevate in gabbie ad alta intensità e hanno a malapena lo spazio per muoversi.

La sigla seguente all’interno del codice è riferita al paese di origine delle uova – in Italia si vendono perlopiù uova italiane. Le successive tre cifre corrispondono al codice ISTAT del comune di allevamento, mentre la seconda sigla indica la provincia di allevamento. Infine, l’ultima serie di numeri si riferisce al nome e all’indirizzo dell’allevamento di provenienza.

Come muoversi quindi nella scelta delle uova da consumare? Da un punto di vista nutrizionale non esistono grandi differenze tra uova prodotte da galline allevate all’aperto e quelle invece allevate in gabbia. Le piccole variazioni riguardano perlopiù gli aspetti fisici come lo spessore del guscio (più rigido nelle uova categoria 0), la densità dell’albume e il colore del tuorlo (leggermente più intenso nelle uova di galline allevate all’aperto). Le uova di categoria 3 sono però risultate più fresche in una serie di studi effettuati su uova comprate al supermercato, e questo può essere dovuto alla maggiore efficienza dei processi produttivi degli allevamenti intensivi, i quali permettono una più rapida prelevazione dell’uovo una volta deposto. Se poniamo l’argomento su di un piano etico, però, la questione cambia: i metodi intensivi sono una tipologia di allevamento molto poco sostenibile e, si spera, destinati all’estinzione. Il sovrapprezzo delle uova di galline allevate all’aperto corrisponde ad una spesa affrontabile da chiunque – si tratta infatti di poche decine di centesimi in più – e garantisce il benessere fisico ma soprattutto psicologico degli animali, i quali mostrano più bassi livelli di stress, minor aggressività e comportamenti tipici della specie, come il ruspare e la gerarchizzazione della popolazione, assenti nelle galline in gabbia per mancanza di spazio.

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Codici bovini

Alla fine degli anni 90, con la diffusione del morbo dell’encefalopatia spongiforme bovina BSE, più comunemente conosciuta come morbo della “mucca pazza”, vengono ridefinite le normative europee che regolano il commercio di carne bovina. Il Regolamento CE 1760/2000 introduce così la tracciabilità dei prodotti bovini permettendo, in caso di emergenza igienico-sanitaria, di risalire direttamente agli animali e all’azienda nella quale si è manifestato il problema. Secondo questo Regolamento, ogni animale è quindi identificato con una documentazione che lo accompagna lungo tutta la filiera produttiva. La tracciabilità rende dunque trasparente il processo produttivo di carne bovina e permette di ristabilire la fiducia tra consumatore e produttore, destabilizzata dagli episodi di BSE.
Le normative di riferimento in questo ambito sono il Regolamento citato precedentemente e le modifiche ad esso applicate nel corso degli anni, delle quali l’ultima risulta essere del 2015.

Le informazioni obbligatorie da apporre in etichetta sono valide per tutte le parti della carcassa costituite da muscolatura striata, per le carni macinate costituite esclusivamente da carne bovina e sale, e per le rifilature dei tagli anatomici costituiti da muscolatura striata. Non vengono invece applicate alle frattaglie e alle preparazioni a base di carne.
I prodotti di carne bovina devono quindi essere obbligatoriamente accompagnati dalle seguenti informazioni in etichetta:
– paese di nascita
– paese di allevamento
– paese di macellazione con bollo CE e numero di approvazione
– paese di preparazione per le carni macinate
– paese di selezione con bollo CE enumero di approvazione
– codice alfanumerico di riferimento tra animale e lotto.

Le prime quattro indicazioni, qualora si svolgano nello stesso paese, possono essere sostituite con la dicitura “origine”. Qualora la carne non provenga da un paese dell’Unione Europea, deve contenere l’indicazione: «Allevato in: non UE» e «Macellato in: (nome del paese terzo in cui è stato macellato)». Eventuale informazioni aggiuntive possono riguardare:
– sistema di allevamento
– alimentazione dell’animale
– trattamenti terapeutici e loro sospensione
– razza o tipo genetico dell’animale
– periodo di frollatura

Per la vendita al dettaglio vigono le stesse normative: in macelleria, le carni devono comunque essere accompagnate dalle stesse informazioni obbligatorie, riportate solitamente su di un apposito cartello presso il banco frigo.

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